Nella mia “breve” esistenza di settantenne suonata (anche in
senso figurato) ho vissuto in cinque regioni d’Italia, quindi a contatto con
decine di dialetti, visto che spesso in comuni dello stesso luogo ci sono
“varianti” anche notevoli. Mettiamoci poi quello paterno e quello materno, che
non sono di località in cui ho vissuto, e ne otteniamo una “poliglotta”.
Ho appreso sempre con curiosità le lingue del luogo e osservato
le loro differenziazioni, e mi sono accorta che i termini più di impatto e più
differenti sono quelli legati a cose d’uso comune.
Frugando nei ricordi mi sono tornati in mente i miei nonni
paterni.
Durante la prima guerra mondiale la nonna, veneta d.o.c,
conobbe il “bel tenentino”, campano d.o.c, e tra loro nacque una storia d’amore che portò
la veneta a vivere in un paese della Campania dove venne soprannominata “a
francisa” per il suo accento “straniero”. Mi raccontava ridendo che un giorno
la suocera le parlò di “o tabuto” e lei cercava disperatamente di capire cosa
fosse, mai pensando che si trattasse della bara.
Nella mia primissima infanzia non capivo perché il nonno
fosse tanto arrabbiato con l’accappatoio visto che sbraitava “mannaggia à capa
toja” e intanto mamma mi dava dello “strafanto” perché facevo la pagliaccia
dispettosa. Una stupenda miscela di veneto e napoletano assolutamente proibita
a me che dovevo usare solo l’italiano. E la pentola, detta “tecia”, un giorno
fu tradotta in “tecchia” dalla mia
sorellina nell’ilarità generale.
Ma quando mai i figli ubbidiscono ai genitori. Con gli amichetti
era sempre dialetto! Si giocava a “campanon” a “sconderse” ai “quatro cantoni”
o con le “piavole”(bambole). “Se faseva bacàn ne la corte soto casa”, e “se
ciacolava coi amisi”! E quando mangiavi dovevi far attenzione a non
“incoconarte”(ingozzarti) e star composta “su la carega” e usare “el piron e
non le man”! D'altronde l’uso di certi termini è strettamente legato alla
famiglia e alle sue origini.
Poi un dì ci siamo trasferiti a Trieste. Ricordo la prima volta che qualcuno ci salutò
con un “che bele mule!” e mia sorella arrabbiata ringhiò “asino sarai tu!”
Un nuovo dialetto, tante parole da capire come il “bazilar”
che significa tante cose, dal trafficare al vaneggiare, secondo il contesto.
Fu una parentesi troppo breve per assorbire termini e modi
di dire di quel dialetto, come una folata della sua bora che ti fa “bagolar”
nella “buriana”, ma quella città è rimasta nel mio cuore con il profumo del suo
mare e l’aria tersa dei giorni di vento.
Un nuovo trasferimento, una nuova città, Roma.
Tutto diverso, dal traffico al modo di fare, al linguaggio.
La comunicazione difficile con i compagni di scuola che
usavano parole come “zinale”, (grembiule), e “pedalini”, (calzini), “zozzone”,
(sporcaccione), assolutamente nuove per me.
Poi la strana abitudine di non completare mai i verbi nel
parlare, “stò a dì”, “stò a fà”, “stò a magnà”, ed il famoso “vàmmorìammazzato”
che concludeva le discussioni. Dimenticavo la “parannanza”, classico grembiule che
copre il davanti, lo “sgommarello”, (il mestolo), e la “terrrina” con tre erre,
cioè la zuppiera la mia mamma la chiamava “pianeta”, che sono i tipici
strumenti di cucina, esempi calzanti di termini legati al lessico familiare.
Roma! Quel gergo trasteverino icastico e sboccato!
“Anvedi sta pischella che stà à fà!”, “Abbozza e mosca”, “Te
pijo a sberle due a due finchè nun diventano paro”, “Va avanti tè che a mè me
viè da rìde!”, “Te do ‘na pizza che t’aresto lo sviluppo!”, “..e se fai così
quann’affitti !”, “piagne er morto pe’ fregà er vivo” … quelle volgari le
lascio.
L’immediatezza del dialetto romanesco è fondamentale nei
momenti d’ira. Un meraviglioso “vammorìammazzato” è meno volgare di un vaffa,
ma anche più efficace metaforicamente parlando. Quasi come lanciare il malocchio.
Roma è stata sempre
presente nei miei “Ahòò! E la volèmo finì ?!!” emessi con tono baritonale per
ottenere silenzio. Quante volte ho ringhiato “si nun ce dai un taijo te spezzo
‘n due!” .. e vista la mia prestanza fisica ci credevano sempre.
Pensavo d’aver messo radici ed invece … la mia giostra ha
ricominciato a girare e mi sono ritrovata in provincia di Torino.
Dal disordine caotico al caos ordinato. E’ stato come passare dalla pacca sulla
schiena al baciamano.
“Buondì madamina.” “Cerea madamina”. “Fuma pareil?”, (bene
così?), a cui qualcuno rispose “no, io non fumo.”
L’impatto più vivo fu con una frase scritta sulla colonna di
un portico : “Terù go Home”. Le mie origini parzialmente meridionali
s’indignarono, la mia parte settentrionale rise.
Tanti anni son passati e il fastidio per chi non è autoctono
ha solo cambiato bersaglio.
Un giorno ho trovato una scritta vergata sulla polvere del
lunotto della macchina : “Lavala Piciu”. Il problema fu tradurre il “piciu” dal
significato piuttosto volgare anche se d’uso comune.
“Vuoi un ciclès?” … chèe??... “Ah! Una gomma da
masticare!..”..
Quanti imbarazzi. Ma
la migliore, comunque, è sempre l’insalatiera
che diventa il “grilèt”.. vai a capirlo fuori da un contesto! Posto
nuovo, lingua nuova. Evvaiiii!
Impara nuovi nomi dei generi alimentari, scopri verdure a te
ignote, passa dai carciofi romani a quelli piemontesi con le spine! “Va bìn, boja fauss!”
Giusto il tempo di imparare lingua e comportamenti, perché
ogni luogo ha le sue “maniere di fare sociali”, e si cambiaaa!
Dal Piemonte alla Lombardia. E nella parte “tosta”, la bassa
padana in provincia di Bergamo.
E’ un puntino sulla cartina all’incrocio tra la retta
Milano-Brescia e quella Bergamo-Lodi, zona storica di passaggio degli eserciti
d’invasione nel medioevo, dove il famoso Odet de Foix conte di Lautrec fu testimone del “miracolo della
Madonna delle lacrime”.
Dai veneziani ai francesi, dagli svizzeri, al soldo di chi
li voleva, alle truppe papali. Un calderone di lingue. E ne derivò un dialetto
difficilissimo da capire e ancor più da parlare. H soffiate o aspirate, due
vocali un stretta ed una larga nella stessa breve parola. Ma comprenderlo è
essenziale per chi lavora a contatto con la gente. Così si cercano maestri in
ogni persona, dalla vicina di casa al panettiere, al salumiere, alla bidella.
“..al me scèt..”, “..i me bagaj”, “..al me tus” ebbene
sempre dei figli parlavano le madri. Certo che è molto indicativo che ci sia un
termine che si riferisce al “bagaglio”!
“Amò” che non vuol dire amore ma “ancòra”, “è che!” che non
vuol dire “e che..” ma “vieni qui” molto chiaro no?
“Gò mia òia”… “A ‘l gh’a
tirat dré ù ploc e ‘l l’a copàt”… “pota, a ‘l dis ol frat quand che ‘l se
scòta”… (non ho voglia, - gli ha tirato dietro un sasso e l’ha ucciso, - “pota”
dice il frate quando si scotta).
La “ghèra” d’Adda, la zona di ghiaia dell’Adda con le sue
nebbie e i suoi modi di dire.
E la “pianeta” divenuta “terrrina” passata a “grilèt” ora è
la “bièla”.
Ed io che non capivo “nì got” ora “capis ergot”.
Ho appreso modi di dire e termini diversi per la stessa
parola, e finalmente la “carega” è tornata ad essere la “cadrega” con evidente
assonanza d’influsso veneto e chiusura del cerchio.
Sarà finita? ..Ma ogni giorno ne imparo di nuove.
Basta! Perché “à l’è mèsdè, e chi che l’à mia mangiat al
resta issè”!
Okok ora però devi passare al lessico da cellulare. SMACK
RispondiEliminaHo le vertigini come se avessi velocemente attraversato il nostro Paese da nord a sud in una ventina di minuti, tanto quanto il tempo che c'è voluto per leggere questo tuo bel racconto. Però ne hai girate di città! Io l'ho fatto ma per lavoro, prima di diventare un sedentario ministeriale. Ho anche vissuto un anno a Napoli e certe frasi che hai raccontato, me le ricordo anche io. Che paese strano il nostro. Fai qualche centinaio di chilometri e ti trovi a parlare con persone che se parlano in dialetto, non le comprendi! A proposito: quello che hai scritto nell'ultima riga per me è un mistero.
RispondiEliminaCiao Anna, ti auguro serene feste e a presto.
Ciao Carlo. La frase di chiusura è in una delle variani del dialetto bergamasco e dice : " E' mezzogiorno (e mezzo) e chi non ha mangiato resta così (digiuno)". Ho dimenticato di segnalare che nella bergamasca le flatulenze son dette "renzare", verbo scoperto quando un mio allievo protestò perche non sopportava le renzate del compagno.
EliminaCiao Anna, il bravo Carlo ti ha già detto tutto! Anch'io ho girato molto l'Italia da nord a sud, e molte frasi che avevo dimenticato improvvisamente me le hai fatte ricordare con piacere nel tuo simpaticissimo viaggio attraverso i nostri dialetti. E a proposito di "renzare", parola che mi riporta alla mente una persona che di "renzate" ne ha dette - e fatte - fin troppe, se ti fa piacere ti mando il link dove trovi il "Vohabolario del Vernaholo Fiorentino e
RispondiEliminadel Dialetto Toscano", e cioè della mia bella regione. E' in formato PDF, da leggere on line, oppure da scaricare se vuoi. Un abbraccio e buona serata, Francesco https://digidownload.libero.it/SisMaXXXXXXXXXX/Vohabolario_Fiorentino.pdf